06. Il sistema di autoinganni. Le porte chiuse

Dei libri che lei ha scritto in tanti anni, quanti sono stati recensiti nelle maggiori riviste scientifiche?
Negli Stati Uniti, per quanto posso ricordare, nessuno. Ma appena oltre confine, in Canada, i miei libri sono ricevuti e discussi in pubblicazioni specializzate. Per esempio, tutti quelli che ho scritto sui problemi del Sud est asiatico sono stati recensiti in Pacific Affairs, che è la rivista canadese specializzata nelle questioni asiatiche. Come sono stati recensiti in Australia, o in Inghilterra. L’Inghilterra, in un certo senso, è un paese fortemente colonizzato dalla nostra cultura ufficiale. Eppure, una rivista come International Affairs ha recensito alcuni libri miei, o del mio coautore Edward Herman.
Non tutti, ma alcuni sì. Non posso neanche immaginare, invece, che una rivista statunitense di questioni internazionali faccia altrettanto. Non ricordo che sia mai avvenuto.

Penso che la ragione stia nel fatto che la mia opera è critica nei confronti non solo degli Usa e della loro politica – non è questo il punto fondamentale -, ma anche, cosa più importante, del ruolo degli intellettuali americani. E questo la mette off limits, la rende inaccettabile. Quando se ne fanno rare menzioni, queste mi sembrano mancare anche della minima pretesa di razionalità o di considerazione delle prove portate a sostegno degli argomenti.
La stessa cosa vale, in gran parte, per i mezzi di informazione. I miei libri sui problemi del mondo contemporaneo sono ampiamente recensiti in Canada, così come in Inghilterra, in Australia e altrove, ma solo sporadicamente qui da noi.
Inoltre, solo fuori degli Stati Uniti ho facile accesso alle tv e alle radio a copertura nazionale, nonchè ai periodici, specializzati o no.
Benchè a suo tempo mi sia dichiarato del tutto ostile alla politica israeliana, sono stato invitato a scrivere per giornali israeliani, e nemmeno di opposizione. Una cosa simile è praticamente impensabile qui. A parte il blocco sovietico, dove sono stato messo all’indice in toto (compresi i miei libri di linguistica), gli Usa sono probabilmente il paese che mi dà minore spazio sia nei mezzi di comunicazione di massa che negli organi d’opinione.
La mia esperienza in proposito non è affatto unica. Si può dire che tocchi a tutti quelli che criticano la politica e l’ideologia americane. Non nella misura del cento per cento, ma la tendenza è evidente, e a mio parere non deve sorprendere. Si assistette a una breve, parziale apertura sul finire degli anni sessanta e all’inizio dei settanta sotto la pressione di vasti movimenti popolari, ma quelle poche finestre che si erano aperte furono prontamente rinchiuse nel corso del processo di ricostruzione ideologica che ebbe luogo negli anni settanta.

Quando compare qualche riferimento a cose dette da me o da altri critici del sistema, spesso sembra che i commentatori non abbiano la minima idea della sostanza delle critiche o degli atteggiamenti degli oppositori. Le rare volte che ebbi modo di discutere questi problemi, sulla stampa o direttamente con giornalisti o membri del mondo accademico, ho constatato, più che disaccordo, incapacità di ascoltare. Ho scoperto ogni sorta di errati preconcetti circa le mie posizioni sulla Guerra del Vietnam e questo perchè l’elite intellettuale americana spesso non riesce nemmeno a concepire che si possano avere opinioni come le mie.
Per esempio, la mia presa di posizione nei confronti della Guerra nel Vietnam si fondava sul principio che l’aggressione è in sè cosa sbagliata, il che valeva anche per l’aggressione degli Usa contro il Vietnam del Sud.
Ebbene, pochissimi tra i docenti universitari americani erano disposti non dico a capire, ma anche soltanto ad ascoltare parole del genere. Non capiscono tuttora a cosa mi riferisca quando parlo di aggressione americana contro il Vietnam del Sud. La storia ufficiale non registra un simile evento, anche se si è pur verificato nel mondo reale. E’ difficile per l’elite intellettuale credere che la mia opposizione all’attacco americano contro il Vietnam del Sud aveva lo stesso fondamento ideale che più tardi mi indusse a condannare l’invasione sovietica della Cecoslocacchia o dell’Afghanistan, per esempio.
Per loro è impossibile. Ritengono che la mia opposizione possa essere stata diretta contro i costi della guerra, i costi per i vietnamiti, o per noi, o il fallimento della nostra impresa militare. O che io fossi un amico e sostenitore del Vietnam del Nord, come è avvenuto in una recente discussione che ho avuto con Joseph Nye di Harvard.
Non ci sono, per loro, altre alternative, altre possibilità . Escludono in linea di principio che uno possa essere contrario all’uso della forza da parte degli Stati Uniti contro il Vietnam del Sud, per la semplice ragione che questa “pretesa” aggressione non c’è mai stata, secondo loro, e quindi non era possibile dare un’interpretazione degli eventi basata su una fatto inesistente. Sulla base della storia ufficiale, gli Stati Uniti difendevano il Vietnam del Sud, non lo aggredivano. Poco saggiamente, sostengono le colombe.
Forse ci sono le colombe russe che criticano, con questi stessi argomenti, la “difesa” dell’Afghanistan

Sono barriere difficili da superare. C’è tutto un sistema di illusioni e di autoinganni che forma l’intelaiatura entro la quale si svolgono discussioni e dibattiti. E se uno non è all’interno di quel sistema di illusioni e autoinganni, ciò che dice resta del tutto incomprensibile agli interlocutori…

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